Trionfo delle tenebre o celebrazione della luce?
Una “leggenda nera” sorta nell’800 l’ha etichettata come l’arte oscura per eccellenza: fatta di ombre, oscure cripte, spazi vertiginosi che comunicavano il timore di Dio. Un paradosso nato con un revival, soprattutto in ambiente anglosassone, che del gotico prendeva gli aspetti più deformi e orrorifici. Come spesso accade, era la storia che si ripresentava con toni (anche) farseschi. Nella testa degli uomini medioevali, però, l’arte gotica non era tenebra, ma il suo esatto contrario: luce.
Nelle cattedrali di Rouen, come di Colonia, come nel duomo di Milano: è la ricerca, a tratti ossessiva, della fonte luminosa a fare da padrona. Ed è così fin dall’inizio, in uno dei primi esempi di arte gotica compiuta: quella dell’abbazia di Saint Denis di Parigi.
C’è un retroterra filosofico a spingere il committente di questa chiesa, l’abate Sugerio, vissuto nel dodicesimo secolo a pensare a qualcosa di radicalmente diverso. Curiosamente, tutto nasce da un errore: Sugerio confuse San Dionigi (Denis in francese), primo vescovo delle Gallie, con lo “Pseudo Dionigi”, autore attivo in ambito bizantino che scrisse un trattato attribuendolo, secoli dopo, all’uomo convertito da San Paolo sull’acropoli di Atene, Dionigi l’Aeropagita.
Quello del “finto Dionigi” è un trattato con una forte impronta neoplatonica, che parla di gerarchie angeliche, di abbacinanti realtà soprannaturali. Di una “luce”, quella di Dio, (forse dell’Uno di Plotino) che, pura all’origine, si “degrada” mano a mano che si avvicina alla materia. Sugerio applica questo principio al coro, la parte superiore della chiesa, quella dove è posizionato l’altare maggiore. Dietro ad esso progetta una serie di cappelle trapeziodali, in cui i fedeli potevano muoversi, posizionando ampie vetrate in grado di creare un’illuminazione dagli effetti mistici.
Fu solo l’inizio. Nell’era dello stile gotico, che dalla Francia si sparse nel resto dell’Europa occidentale, le chiese divennero immagini terrene della città di Dio, la Gerusalemme celeste. Per questo dovevano essere grandi, ma anche proporzionate. L’invenzione dell’arco a ogiva, che consentiva di slanciare l’edificio e il gioco dei contrafforti ricoprirono un ruolo fondamentale in questa teoria degli spazi. A garantire il colore, più che gli affreschi, che rinacquero a partire dal Quindicesimo secolo, erano le vetrate. Colori fatti di luce, perché illuminati dal sole, e sempre vividi. Utilizzati, in particolare il blu (nel Medioevo il colore dell’aria), il rosso, il giallo e il verde.
Con i normanni il gotico, attraverserà la manica, giungendo in Inghilterra. In Italia, dove questo stile dal gusto nordico non attecchirà mai: trai pochi, l’esempio più noto (e tardo) quello del Duomo di Milano, nacque come un’occasione di festa: Gian Galeazzo Visconti sposa Isabella di Valois, figlia del re di Francia e commissiona un tempio sfarzoso e imperiale.
Necessariamente, una chiesa gotica. Se in Italia l’architettura gotica è rara, si può parlare a pieno titolo di pittura gotica per Giotto, Cimabue, Paolo Uccello e Simone Martini. Un’arte narrativa, capace di raccontare le emozioni con maggiore sicurezza rispetto ai maestri del romanico. E a suo modo, luminosa: ricca – letteralmente – d’oro e di colori vivaci, come dimostra il trittico dell’adorazione dei magi di Stephan Lochner, datata 1445. Un dipinto che lega, a modo suo Milano, città che un tempo ospitava le spoglie dei Re Magi, poi trafugate dal Barbarossa, a Colonia, altra capitale del gotico. L’imponente cattedrale della città tedesca, che ospita le reliquie sottratte, come il duomo meneghino, fu finita solo nel 1880, non risparmiando sulla grandezza: per quattro anni, fino al 1884, rimase l’edificio più alto al mondo.