Video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e la riesecuzione dal vivo di sue celebri performance. Le principali tappe della carriera dell’artista in mostra a Firenze.
Si tiene a Firenze fino al 20 gennaio la retrospettiva dedicata a Marina Abramovich, promossa dalla Fondazione Palazzo Strozzi che conferma così la sua vocazione al Contemporaneo. L’artista di origine serba, dopo gli esordi pittorici, si è imposta come una delle performer più interessanti e provocatorie del panorama artistico. La mostra dal titolo evocativo The Cleaner ha l’ambizione di essere il bilancio della sua carriera “per tener cosa è necessario”, come dichiarato dal direttore della Fondazione Arturo Galansino. Video, fotografie, installazioni, per un totale di 100 pezzi ripercorrono una carriera artistica lunga 50 anni.
L’esposizione è sia rivisitazione storica sia “live” con la riproposizione di 5 sue performance eseguite da artisti allenati dalla Abramovich. Una panoramica dunque ad ampio spettro che include i quadri dei suoi esordi o il furgone Citroën con cui tra gli anni ’70 e ’80 girò per l’Europa con Ulay, suo compagno allora di vita e d’arte. In mostra anche 5 Oggetti Transitori (Power Object) “strumenti energetici per viaggi interiori”. Istallazioni con quarzi, cristalli e ossidiane inserite su supporti metallici o lignei, che agiscono da trasmettitori di energia.
Tra le performance riproposte vi è quella del 2010 al MoMa di New York che la fece conoscere al grande pubblico grazie anche allo scalpore suscitato. Seduta su una sedia, ogni giorno per tre mesi, fissò negli occhi migliaia di visitatori che le si sedevano di fronte. Lo scopo era far entrare l’altro nel suo campo di energia e creare una comunicazione profonda, uno scambio di aure.
Alla base di queste azioni, come spiegava la stessa artista, vi era la necessità di “esplorare nuove forme di comunicazione”. Una sperimentazione condotta attraverso un uso del corpo spregiudicato spinto fino al limite, frutto di un bisogno di assoluto. Le performance dei primi anni sono infatti prove di resistenza oltre la fatica, la paura o l’umiliazione per raggiungere i limiti della tolleranza e dell’autocontrollo.
Come Rhythm 10 del 1973, quando inginocchiata e con la mano aperta sferrava con un coltello dei colpi tra le dita, spesso ferendosi. Un gioco sadico già stato fatto nel 1936 da Dora Maar nel locale parigino Deux Magots per attirare l’attenzione di Picasso. Ancora più estremo Rhythm 0 del 1974 a Bologna, una incondizionata offerta di sé da martire moderna; per sei ore si mise a disposizione dei visitatori che potevano usare liberamente sul suo corpo vari strumenti scelti da lei e posti su un tavolo. In quell’occasione il pubblico dapprima timido mostrò poi una ferocia che costrinse all’intervento delle forze dell’ordine che sospesero la performance. Nella mostra slide e strumenti illustrano quell’evento.
Negli anni successivi si attenua il masochismo ma non la provocazione. Nel 1977 a Bologna Imponderabilia (rieditata al primo piano) è interrotta dalle forze dalla polizia ma questa volta per pornografia.
Marina e Ulay nudi, posti l’uno di fronte all’altro in uno stretto passaggio, lasciavano infilare tra i loro corpi i visitatori che venivano posti davanti alla scelta di fronteggiare l’uomo o la donna. Provocazione ma anche indagine sul rapporto maschio e femmina e bisogno di esplorare i confini del corpo, proprio e dell’altro. Ma forse la performance che più di tutte merita di essere rivista a Firenze è Balkan Baroque, con cui vinse nel 1997 il Leone d’oro della Biennale di Venezia. Turbata dalla guerra nei Balcani, lavò per otto ore al giorno ossa di bovino sanguinolente intonando canti popolari in un impossibile desiderio di mondare il suo popolo e tutti i popoli dal sangue della guerra. Seduta al centro di un cumulo di ossa, l’abito bianco macchiato di sangue, tra vermi e odori nauseabondi si pose come una sorta di moderna sacerdotessa. Al di là degli aspetti provocatori c’è in lei un nucleo interno fatto di intensità ascetica, tramandata dal nonno patriarca ortodosso, e rigore dovuto forse all’essere cresciuta da genitori militari.
La mostra è l’occasione per conoscere una artista che da sempre si interroga su corpo, linguaggio e relazione e che nel farlo in maniera così radicale e profonda ci costringe a confrontarci con noi stessi. Lei è il moderno sciamano dei nostri tempi come qualche critico la ha definita, una guida verso la scoperta dei nostri limiti.
Annamaria Calabretta