Viene dalla Turchia una tecnica antichissima basata su uno degli elementi naturali quasi impossibile da modellare e plasmare.
Si dice “Scritto sull’acqua” quando ci riferiamo a qualcosa che è volatile o impossibile da trattenere, quindi effimero.
La cultura occidentale per secoli ci ha detto che scrivere nell’acqua è come scrivere nel vento, cioè nel nulla. Parole, promesse e immagini scritte nell’acqua non hanno la consistenza rispetto a quello che è scritto sulla pietra o sul bronzo che invece ha il carattere dell’eternità.
In Turchia, al contrario, disegnare sull’acqua è una pratica antica e apprezzata. Ha un nome, si chiama “Ebru”, ed il richiamo al vento non è casuale perché viene dall’antico persiano “ebri” che significa nuvola. Il termine sottolinea bene il carattere di quest’arte, dove caso ed abilità si contendono il campo in una competizione difficile da governare.
I maestri ebruli godevano di grande considerazione alla corte della mezzaluna. Le prime tracce, tuttavia, le troviamo nel Giappone del IX sec., utilizzata per i “waka”, componimenti di pochi versi dedicati a natura e amore.
Trasportata dall’estremo oriente, attraverso l’Asia centrale, dalle carovane che percorrevano la Via della seta, la tecnica arriva in Turchia dove conosce un enorme diffusione tra XVI e XX sec.
La tecnica richiede particolari abilità e sapienza, pur nella sua apparente semplicità.
In una vaschetta larga e poco profonda si versa l’acqua e vengono aggiunte sostanze resinose (per renderla più consistente) e pigmento (per creare una base di colore).
La preparazione è laboriosa e può durare fino a 12 ore. Su questa acqua “addizionata” si versano gocce di colore che poi vengono movimentate con dei bastoncini per creare sia decori astratti, come in sua sorta di “marmorizzazione”, sia figure come fiori o altro.
Terminato il disegno, sulla superficie dell’acqua viene appoggiato un foglio di carta che viene, poi, rimosso con molto cura solo quando si ha la certezza che il disegno sull’acqua sia stato assorbito. Non vi erano margini per errori, se le gocce di colore non fossero state ben movimentate non era possibile rimediare, anche l’applicazione e la rimozione della carta era un momento estremamente delicato. Il risultato finale è frutto del caso ma anche del controllo dell’autore.
Ma, soprattutto, è il tentativo riuscito di imbrigliare l’incontrollabile, ovvero il movimento dell’acqua.
In questa tecnica occorre una grande tecnica e controllo di sé, ma il risultato finale è una immagine che ha la precarietà e l’indefinitezza dei movimenti dell’acqua, oltre che la razionalità della mente che guida la mano. L’indefinibile e il controllo che vengono immobilizzati sulla carta.
C’è una profonda saggezza in una tecnica che richiede il controllo dei gesti e nello stesso tempo lascia spazio al caso, all’indeterminabile. I mistici islamici vi vedevano una metafora del Divino. La goccia che cade è il caso in cui è nascosto l’intervento del Creatore il quale, a sua volta, interagisce con la mano che la modella. È la metafora perfetta della relazione tra Dio e l’uomo, l’impulso divino da un lato e il lavoro dell’uomo che lo completa.
L’Ebru ha seguito le vicende e le sorte dell’impero ottomano. Fin quando questo fu potente, la tecnica era molto diffusa, impiegata nella decorazione di documenti, lettere e decreti ufficiali ma anche libri e altro. Iniziata la decadenza dei sultani anche la tecnica perde importanza riducendosi a decorazione marginale e a buon mercato.
Questo, però non ha impedito a questa tecnica di diffondersi, nel frattempo, anche in Europa.
Oggi nel nostro disincantato Occidente ciò che richiedeva tantissimi anni di apprendistato sotto la guida dei maestri, è alla portata di tutti ma fortemente banalizzato. Sul web numerosi tutorial offrono ricette casalinghe con materiali meno nobili ma facilmente reperibili e tecniche semplificate che non hanno nulla di questa antica arte.
Quella che era una nobile arte è usata anche come terapia antidepressiva.
Tuttavia la antica sapienza ancora sopravvive, sebbene con difficoltà. Oggi sono pochissimi in Turchia i maestri che continuano la tradizione.
In Italia ne abbiamo uno, Alberto Valese che è l’unico straniero considerato Maestro in Turchia. Egli aveva scoperto per caso la tecnica negli anni ’70, in un manoscritto parigino. Incuriosito da questa tecnica così originale e complessa, acquistò un testo su questa arte ad Istanbul e iniziare poi le sue sperimentazioni a Venezia.
E’ l’inizio di una fiorente attività secondo gli antichi insegnamenti (https://www.albertovalese-ebru.it/new).
Chissà cosa avrebbe detto il poeta inglese John Keats che, morto a soli 25 anni, non volle che sulla propria tomba fosse scritto il proprio nome ma soltanto “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”.